Canti corali e composizioni originali di Claudio Macchi


SAGGI


L'esperienza mi suggerisce questi brevi precetti, in forma di decalogo, a uso dei direttori di coro amatoriale. Non hanno altra pretesa se non quella di costituire la base di partenza dalla quale sviluppare ed approfondire poi gradualmente la vastissima problematica che investe la pratica dell'attività corale.

1) POSIZIONE DEL CORPO.

Si abituino i cantori fin dalle primissime lezioni a mantenere tutto il corpo, dalla testa ai piedi, completamente rilassato, senza il minimo irrigidimento muscolare.

Così anche le braccia e le mani (aperte) quando sostengono la partitura, altrimenti vanno tenute distese a penzoloni sui fianchi. Testa leggermente inclinata indietro. Mantenere sempre il rilassamento anche, e specialmente, nel caso limite (durante le prove) del cantar seduti.

2) EQUILIBRIO DELLE VOCI.

Nel classificare le le voci il direttore tenga conto non solo dell'estensione di queste ma anche del timbro. Ciò significa che una voce può essere classificata di soprano o di tenore anche se non arriva ai suoni del registro acuto. Non è da disprezzare talvolta l'impiego d'un baritono nelle file dei tenori o di qualche mezzosoprano nelle file dei contralti. Si badi a ottenere una sonorità equilibrata entro le sezioni e nel complesso del coro. Il singolo cantore deve sentire e non coprire la voce del suo vicino. Si alternino i cantori più sicuri con quelli meno sicuri. La sezione... esuberante dovrà sacrificarsi e adeguarsi a quella più debole e non viceversa. l'equilibrio sonoro deve essere assoluto nelle esecuzioni di musiche polifoniche pur badando, nelle parti imitative e nei fugati, di far risaltare le entrate di ogni singola sezione. Nel canto popolare armonizzato e nelle forme omoritmie invece, la voce solista o la sezione che sostiene la melodia avrà maggiore risalto delle sezioni che recano note d'armonia o di accompagnamento e che dovranno perciò rimanere assolutamente in secondo piano.

3) RESPIRAZIONE.

È fondamentale porre sin dall'inizio particolare cura nella respirazione che dovrà partire dal diaframma senza alzare le spalle. l'inspirazione (nasale) sarà sufficientemente ampia e veloce mentre l'espirazione (emissione del suono) sarà parsimoniosa in modo da far "cantare sul fiato". Ricordare che il pianissimo richiede una maggiore riserva di fiato che non il fortissimo. Si facciano eseguire, prima d'iniziare la prova, alcuni esercizi di inspirazione, di trattenimento del fiato e di espirazione. Si consigli anche ai singoli cantori di effettuare alcune lente e profonde inspirazioni ed espirazioni prima dell'esecuzione in pubblico o nei concorsi corali: ciò, oltre a predisporre il corpo al, completo rilassamento, sarà utile anche per togliere al cantore l'eventuale nervosismo o "timor panico".

4) EDUCAZIONE DELLE VOCI.

L'ideale è rappresentato dall'impasto individuale delle voci d'un coro. Cosa che nei cori amatoriali è pressoché impossibile. Badi allora il direttore a curare collettivamente la giusta emissione e omogeneizzazione del suono mediante opportuni" vocalizzi". La bocca sia tenuta discrezionalmente aperta, le labbra arrotondate o atteggianti al sorriso a seconda dell'espressione e delle vocali. La lingua, abbassata con la punta sui denti inferiori nelle vocali a-o-u, si alzerà sino a sfiorare i denti superiori nelle vocali e-i. Attaccare i suoni direttamente, senza portamenti di voce. Innumerevoli sono i tipi di "vocalizzi" ma basilari quelli effettuati sui primi cinque suoni della scala e sugli arpeggi ascendenti di tonica e discendenti di settima di dominante (arpeggi di Rossini). Variare l'altezza, le vocali e la dinamica procedendo per semitoni, lentamente, iniziando forte sulla nota più bassa e diminuendo al piano sulla nota più alta (quinta), specie nel registro più basso delle varie sezioni. Utilissimi sono i vocalizzi preceduti dala consonante m e n ( mu, mo, nu, no) che contribuiscono a un impasto spontaneo della voce. L'esecuzione dei vocalizzi non deve costituire una pura pratica tecnica, ma sempre e quanto mai una pratica "espressiva" mettendo in questi non me no impegno di quando si esegue una composizione.

5) INTONAZIONE.

Il direttore insegni le parti facendo uso della propria voce cantante e usi uno strumento musicale solo per sottolineare alcuni passi difficili per l'intonazione. Il cantore tende a calare soprattutto nei casi di reiterazione di una stessa nota nel registro alto anche, e più ancora, se questa stessa nota è intervallata da altre. Particolare cura va posta sugli intervalli di terza minore. Le voci calano anche nel caso di "surmenage ". Sarà allora sufficiente alzare il brano d'un semitono per riportare l'intonazione alla normalità

6) DIZIONE.

Dare la massima importanza all'espressività della parola. Insistere soprattutto sulle sillabe atone che devono essere pronunciate con estrema leggerezza, specie quando la parola è sdrucciola (Bèr-ga-mo, Màn-to-va ecc.), nel qual caso l'ultima sillaba deve essere appena pronunciata. La sillaba atona diceva il grande solesmense Dom Mocquereau deve essere come un fiocco di neve. Soltanto che la neve - aggiungeva - è materiale! L'accento tonico, fatte rare eccezioni: deve essere invece molto dolce e di poco più intenso della sillaba atona. Quale preparazione agli accenti tonici e alle sillabe atone il direttore potrà, inizialmente e non continuativamente, assecondare i cantori can con il gesto portando le mani (aperte) in avanti (dorso verso i cantori) sull'accento tonico e ritraendole subito ( dorso verso se stesso) sulla sillaba atona. Particolare cura avrà anche per i dittonghi che hanno l'accento sulla prima vocale ( mio, tuo, suo), specie se l'accento cade su di un suono molto breve, per evitare il pericolo di spostare l'accento sulla vocale successiva ( miò, tuò. suò ) o addirittura su quella precedente (l'àmia, l'àtua, l'àsua) come spesso purtroppo si sente nelle amene canzonette da parte di certi cori parrocchiali. Porre la medesima attenzione agli iati, evitando le elisioni, particolarmente nella lingua latina, dove spesso si sente ky-rielei-son anziché ky-ri-e / e-le-i-son. Così pure la separazione tra consonante e vocale, dove spesso si sente i-nex-cel-sis anziché in / ex-cel-sis, e via dicendo. Le consonanti doppie (fatta eccezione per quelle sonore: l, m, n, r, s) si ottengono facendo una brevissima interruzione fra l'una e l'altra (not'te, mez'zo ecc.).

7) AGOGICA.

Ricordi il direttore che la frase musicale si compone d'una parte iniziale, ascendente ( protasi) e di una parte conclusiva, discendente ( apodosi). Il culmine è rappresentato dall'accento tonico principale ( accento, di frase). Tutti gli altri accenti tonici sono secondari e subordinati a questo, che solitamente coincide con la nota o il gruppo melodico più elevato della frase a cui va data particolare espressione. La frase musicale non va perciò eseguita metronomicamente, ma con un impercettibile moto e crescendo sulla protasi e, analogamente, di rallentando o diminuendo sulla apodosi. L'apice della frase non si trova sempre nel mezzo ma qualche volta molto prima e talaltra molto dopo. Non dimenticare dopo l'apodosi di riprendere la frase muovendo sulla successiva protasi. Di norma, un gruppo di note ascendente o un suono lungo che lega con una nota più alta va sostenuto con un lieve crescendo e un gruppo di note discendente o un suono lungo che lega con una nota più bassa, va eseguito con un lieve diminuendo. Dare espressione anche ai suoni di breve durata.

8) DIREZIONE.

Il direttore non deve essere un battitore di tempo dinanzi a un gruppo di cantori ma un concertista che ha davanti a se un vero e proprio strumento musicale. Il gesto del direttore non dovrà perciò essere "materiale" ma "espressivo" al massimo. Il direttore" respiri" e ( dentro di se) canti assieme al coro. Il campo d'azione del gesto è dato, grosso modo, dal cerchio che formano le due braccia roteanti al massimo ( zona del fortissimo) per portarsi al centro di questo cerchio ( mani che si toccano), ( zona del pianissimo). I gomiti non tocchino il corpo. Nei limiti di questo cerchio le mani segnano il tempo mediante movimenti verticali, orizzontali e in avanti secondo i parametri dell'altezza del suono, dell'intensità e dell'agogica. Eviti il direttore di dirigere in continuità con la simmetria delle due mani, riservando principalmente la destra per il tempo e la sinistra per l'entrata delle parti, la dinamica l'espressione ecc. ecc., pur assecondando talvolta la destra. Curi particolarmente gli attacchi ( prendendo il respiro in comunione con i cantori) e gli stacchi ( per i quali sarà sufficiente un brevissimo gesto). Negli attacchi in levare, il gesto sarà molto energico. Con l'esperienza il direttore, specie quando un brano è stato completamente assimilato dal coro, ridurrà al minimo i suoi gesti in modo che il coro canti quasi... da solo, senza direzione.

9) INTERPRETAZIONE.

Nessuna musica va affrontata senza avere una buona conoscenza dell'epoca, dell'autore e dello stile. Il direttore si affidi alle buone trascrizioni di musica, antica prendendo con molta cautela quelle che recano indicazioni di tempo, segni dinamici ecc. ecc., che sono comunque arbitrarie. Illustri ai suoi cantori quanto più egli conosce dell'autore e del genere della musica che sta per affrontare. Faccia eseguire, se è il caso, la declamazione del testo in recto-tono, con la giusta ritmica e la dovuta espressione. Prenda i tempi in conformità al senso della parola in modo che questa risulti intelligibile, chiaramente espressa, non trascinata. ne affrettata.

lO) REPERTORIO.

Nella scelta del repertorio il direttore tenga sempre presenti le reali possibilità dei cantori. Non si lasci trarre in inganno dalla bellezza e dal fascino di certe partiture se il suo complesso corale non è ancora all'altezza di poterle eseguire. Certi brani che a prima vista sembrano facili nascondono talvolta delle insidie mentre altri che sembrano di difficile esecuzione possono venir facilmente superati. Solo il consiglio dei maestri più esperti potrà in tal caso ovviare. Non affronti. direttore di coro amatoriale il genere madrigalistico qualora non disponga d'un gruppo limitato di cantori e di voci particolarmente belle e coltivate. Ne faccia eseguire al suo complesso generi diversi ( sacro, profano, popolare) qualora non sia ben sicuro di ottenere dai cantori l'adeguata vocalità e stile che ciascuno di generi richiede.

MARIO MACCHI

Da "La Cartellina" , Milano 1987 n° 47

 IL CANTO POPOLARE NEI SUOI VARI ASPETTI E NELL 'ACCEZIONE DELLA SUA TERMINOLOGIA.

l grande musicologo tedesco Kurt Sachs affermava che la terminologia deve servire a chiarificare e non a confondere, ed esortava, perciò, a diffidare di certi termini ambigui come ad esempio "tono", il quale esprime ben sei significati diversi. Così, allo stesso modo, io ritengo siano ambigui anche i termini "polifonia" e "popolare". Se noi prendiamo un dizionario di musica leggeremo, più o meno che per polifonia s'intende l'unione di più voci, ciascuna delle quali svolge un proprio disegno melodico ma, in senso estensivo,' significa anche l'unione di più suoni non appartenenti necessariamente ad una parte melodica, in quanto deriva dal greco "polyfonos", composto da "poly" (molto) e "phone" (suono o voce). Dal che se ne deduce che si definisce polifonia tanto un madrigale del Palestrina, dove le singole voci si rincorrono l'un l'altra in senso orizzontale, così come una villotta friulana, dove le voci sono omoritmiche e si susseguono in senso verticale, cioè armonico. La stessa ambiguità avviene con il termine "popolare" con il quale s'intende sia il canto di montagna "Quel mazzolin di fiori" così come l'aria del Rigoletto "La donna è mobile". Il sommo poeta tedesco Goethe così ebbe a scrivere sul finire del 1700: "Si dice così spesso canti popolari ma non si sa sempre con chiarezza che cosa si debba intendere". In effetti, come scrisse Oscar Chilesotti, fino al 1500, il canto popolare anonimo veniva accomunato a quello di autore d'ispirazione popolare e, solamente con l'invenzione della stampa (Petrucci 1502), la musica d'arte entra nell 'ufficialità. Ma si continua ancora oggi a chiamare "canto popolare" tanto quello anonimo così come quello d'autore. A nulla valsero i tentativi degli etnografi Giulio Fara e Francesco Balilla Pratella di proporre termini come: etnofonia, musica semi-etnica, musica popolareggiante per distinguere il canto anonimo da quello d'autore. Più convincenti invece sono i termini della moderna etnomusicologia che distinguono i canti anonimi da quelli di autore con il termine di "canti di tradizione orale". Ma attenzione. Non è che il "canto di tradizione orale" eescluda del tutto il canto di autore, il quale ultimo più assumere due aspetti diversi. Uno è il canto d'autore originale, così come l' autore lo ha concepito e codificato, cioè scritto o stampato. Il secondo aspetto è quello del canto d'autore il quale, passando di bocca in bocca tra i popoli viene modificato. alla stessa stregua dei canti di tradizione orale, spesso in modo sostanziale, sia per quanto riguarda la melodia, sia per quanto riguarda il testo poetico. In tal caso, il termine più convenientemente usato è quello di rielaborazione popolare. E qui mi si permetta di aprire una parentesi. Numerosissimi sono i canti d'autore di "rielaborazione popolare", tratti dalle melodie di opere liriche, raccolti a Trieste ne1l 'Ottocento.Trieste (allora centro della cultura Mitteleuropea, in quanto Vienna era considerata la capitale della musica), disponeva dell'efficientissimo Teatro Comunale Giuseppe Verdi; il quale veniva considerato il banco di prova di tutti i cantanti lirici. Se passavano, indenni da fischi, a Trieste potevano affrontare tranquillamente la scala di Milano. Il popolo triestino era assiduo frequentatore di opere liriche. Passava intere notti e tutta la giornata, a fare la fila, organizzandosi a turni, pur di assicurarsi un posto in loggione! E il giorno successivo alla rappresentazione, le strade, le piazze e le osterie rintronavano dei motivi lirici che più avevano fatto presa, storpiati nel modo più imprevedibile. E a farne le spese

non erano i motivi delle o pere più famose, ma anche di quelle meno rappresentate. E' il caso del Macbeth e dei Vespri Siciliani, di Giuseppe Verdi. Dall'unione di due cori di queste opere, nacque la. canzone "S'Affresca il vento". I versi:

Sparve il sol, la notte or regni

scellerata, insanguinata

si trasformarono in:

Sparve il sol, è notte orrenda

sorge l'alba insanguinata

e i versi del coro dell'opera "I Vespri Siciliani"

Gaia in viso e senza velo

qual la vaga Citerea,

Vieni a me verace Dea

Fresco è il vento

e imbruna il di.

dove, per il popolino, quella vaga Citerea, che alludeva alla Dea Venere dell 'omonima isola greca Citera, di difficile comprensione, trasformò la vaga Citera in citadela:

Voga, voga citadela

chi di noi sarà più bela

s'affresca il vento

si abruna il di.

Che il popolo non tollerasse parole sofisticate lo dimostra anche un 'aria dell'opera "Tutti in maschera" del compositore veronese Carlo Pedrotti, dove i versi:

E già mi par che la testa vacilli

si son trasformati in:

Essa mi pare una testa imbecille

E potrei continuare molto a lungo. Tanto è ricca la storia delle rielaborazioni popolari di musiche d'autore. Va precisato pero che anche nel campo specifico dei canti di tradizione orale, dove continuative modifiche e storpiamenti, nel tempo, costituiscono la caratteristica principale di questo fenomeno, non poche volte ci troviamo di fronte ad espressioni a dir poco spassose. E' capitato a me, qualche anno fa, di raccogliere uno di questi...gioielli! Un insegnante mi pregò di trascrivere i canti registrati in un paese del Friuli che' costituivano l'oggetto di una raccolta effettuata fra gli alunni di una scuola media. Ebbene, tra questi canti mi è capitato di sentire, dalla viva voce di un 'anziana signora, il famoso "Monte Canino". A parte il ritmo che teneva questa signora, adatto più al passo dei bersaglieri che non a quello degli alpini, il mese di aprile si trasformò in sera di aprile, il lungo treno che andava ai confini (altrimenti come poteva far rima con alpini?). Ma ecco la fine della seconda strofa che sentenzia:

Siamo arrivati sul Monte Canino

in pianterreno ci tocca riposar.

Non meno originale la chiusa della terza strofa che suona:

Sotto il ciel sereno

la neve ci cadrà!

Ma quale importanza poteva avere per quella simpatica anziana signora, il fatto che gli alpini riposassero, con la neve che cade sotto il ciel sereno, nel pianterreno del Monte Canino? Per essa, importante, era solamente il fatto di cantare. E poi, perché essere così severi con una simpatica signora (che probabilmente era una analfabeta), mentre abbiamo l'esempio del grande poeta Giosuè Carducci, il quale, nella sua poesia "La canzone di Legnano", Il Parlamento, scrive che:

Il sole / Ridea

calando dietro il Resegone

dimenticando che questo monte delle Prealpi lombarde,si trova ad oriente di Milano, e non ad occidente. Chiusa la parentesi, ritorno alla terminologia. Riassumendo, abbiamo preso in considerazione quattro diverse specie di canto popolare:

1) Canti di tradizione orale la cui origine è ignota e che si tramandano di bocca in bocca e di paese in paese subendo, nel tempo, modifiche più o meno rilevanti al punto di creare, da un medesimo tema, altri motivi popolari.

2) Canti di tradizione orale simili a quelli qui sopra descritti ma che sono stati raccolti, codificati e, spessissimo, pubblicati a scopi di studio e, talvolta, destinati ad essere pubblicamente eseguiti; sia nella loro stesura originale, sia in forme più o meno elaborate. Questi canti, essendo stati momentaneamente fermati dal loro naturale processo di diffusione e di modificazione, non possono quindi rappresentare il canto in assoluto ma solamente quel dato momento del loro cammino. così come, allo stesso modo una fotografia rappresenta solo un dato momento degli oggetti che ha fissato.

3) Canti popolari di autore nella stesura originale, sia essa manoscritta, sia essa stampata.

4) Canti popolari d'autore, simili a quelli sopra descritti, ma che sono stati più o meno modificati dal popolo, sia per quanto concerne il testo poetico, sia per quanto concerne la linea melodica. Questo tipo di canti popolari va indicato con il termine di "rielaborazione popolare".

Ora, tutti questi canti, siano essi in forma monodica (cioè a una sola voce), siano essi in forma armonica (a più voci), com'è il caso della villotta friulana di tradizione orale, possono essere soggetti (da parte dei compositori o dei direttori di coro), a delle particolari realizzazioni corali che si distinguono formalmente con delle caratterizzazioni diverse e che prendono perciò una terminologia diversa. Queste realizzazioni prendono via via il nome di armonizzazione, elaborazione, trascrizione, riduzione, revisione, ricostruzione, rielaborazione, adattamento e arrangiamento. Specificazioni che dovrebbero sempre risultare nei programmi di concerto, assieme al titolo della composizione e/o in precedenza al nominativo dell'autore. Purtroppo, nella mia lunga esperienza di compositore e di direttore di coro, ho dovuto constatare che tale indicazione viene talvolta omessa e, quel ch'è peggio, addirittura indicata in modo erroneo, confondendo 1 'armonizzazione con l'elaborazione e via dicendo. Molto spesso, la colpa di questa manchevolezza non è da attribuire al direttore di coro o al programmatore, in quanto l'inesatezza o manchevolezza si trova alla fonte, e non solo nelle partiture manoscritte ma, addirittura, in quelle stampate. Penso sia utile, qui, spendere due parole per descrivere questi vari tipi di realizzazione corale. Il più comune e anche il più diffuso, specialmente negli anni d'avanguardia della storia del canto corale popolare è l'armonizzazione. Questo trattamento esige anzitutto pieno rispetto della linea melodica originaria, in un contesto armonico di stile rigorosamente omoritmico (verticale) con la sola eccezione di qualche eventuale controcanto nelle parti, ma evitando lo stile imitativo. L'elaborazione, invece, a differenza dell'armonizzazione non richiede che la linea melodica originaria venga rispettata ma, al contrario, amplificata e liberamente sviluppata con l'impiego, non necessariamente obbligato, di procedimenti di stile imitativo. Si può allora ben dire che, se l'armonizzazione tende a mettere in evidenza il valore intrinseco della melodia, l'elaborazione, all 'opposto, tende a mettere bene in evidenza la bravura dello elaboratore. Con il termine trascrizione si usa più comunemente indicare la trasposizione in notazione moderna di musica scritta originariamente in notazione antica, o altro tipo di notazione. Va ricordato che le notazioni musicali antiche, come ad esempio quella medioevale, detta "gregoriana", o quella rinascimentale, detta "franconiana", non conoscevano le stanghette di divisione che formano le battute. Ne si usava l'impiego dei segni dinamici e del colorito, oppure le indicazioni del movimento in quanto, quest'ultimo, si basava fondamentalmente sul,"tactus", vale a dire sulle pulsazioni del polso. Indicazioni che, certi moderni trascrittori di musica rinascimentale, come ad esempio, Raffaele Casimiri e Achille Schinelli, hanno messo allo scopo di facilitare il compito ai direttori di coro meno provveduti. Ma queste indicazioni sono del tutto arbitrarie e non possono dettare testo. E' invece ammissibile, nelle trascrizioni, il dimezzamento dei valori di durata (la longa con la semibreve, la semibreve con la minima e via dicendo. Questo perché nella notazione moderna, è scomparsa la figura musicale detta longa, che si usa oggi eccezionalmente nel canto in recto-tono, cioè su di una sola nota senza rigore di tempo. I migliori trascrittori di musica rinascimentale sono quelli che premettono, all'inizio della trascrizione, ad ogni singola voce, le relative chiavi antiche e le prime figure musicali come nell'originale, le quali mettono anche in evidenza se il brano è stato, o meno, trasportato, e con le stanghette di divisione che non tagliano il rigo, ma poste fra rigo e rigo della partitura, lasciando così ciascun rigo libero da divisioni e lasciano la partitura completamente agnostica , cioè priva di qualsiasi indicazione. Dirò anche che nel caso in cui un direttore di coro, presentasse ad un concorso corale delle partiture trascritte in notazione moderna, con le indicazioni di movimento, dei segni dinamici del colorito, i membri della giuria, non dovrebbero tener conto se questi segni non vengono rispettati in quanto, come si è detto sono abusivi e perciò non possono fare testo. Con il termine trascrizione si intendono definire anche quelle composizioni di musica scritte per un organico diverso da quello originario, come ad esempio dalla musica strumentale a quella vocale e viceversa. Il termine riduzione si riferisce alla realizzazione di una composizione con mezzi fonici più ristretti di quelli della composizione originaria. Ad esempio, la realizzazione a tre voci, di una composizione corale scritta originariamente per quattro voci. Se invece si verifica il caso contrario, cioè quello della realizzazione con mezzi fonici più ampi rispetto la composizione originale, come ad esempio, da quattro a tre voci, in tal caso il termine più indicato è quello di adattamento, che tuttavia si può usare anche nel caso precedente, o anche nel caso della trasposizione della musica strumentale a quella vocale, come quello già visto per la trascrizione. Il termine revisione lo si usa più comunemente nel caso di musiche antiche, completate da eventuali correzioni e di altri segni dinamici, del colorito, ecc..ecc. come abbiamo riscontrato per le trascrizioni. Si usa il termine ricostruzione, per indicare quei canti che sono incompleti nel testo poetico o nella linea melodica rispetto l'originale non del tutto conosciuto o frammentario o, ancora, rilevato da varianti dello stesso canto. Abbiamo ancora la rielaborazione con il quale termine si usa indicare il rifacimento di una elaborazione già effettuata in precedenza. Per finire questa lunga serie di realizzazioni, abbiamo il termine di arrangiamento che viene usato per indicare il libero trattamento di un motivo popolare, o di una canzone, o di altra musica per una formazione di esecutori. Ma questo termine viene particolarmente usato nel campo della musica leggera e del jazz. Per concludere questa rassegna sui vari aspetti che può assumer il canto popolare, s'impone anche un'altra considerazione. se è vero che, formalmente, ciascun tipo di canto popolare richiede una sua particolare terminologia, è altrettanto vero che, sostanzialmente, non esistono confini tra i canti popolari di tradizione orale e quelli d'autore, che abbiamo esaminati. Tutti gli autori, siano essi di chiara fama, siano essi ignoti o umili contadini, sono, prima ancora che creatori, degli imitatori. Perchè non è solamente dai contatti umani che nasce la creatività, ma soprattutto, dai contatti con la natura stessa, che ne diventa l'ispiratrice. Altrimenti non sarebbero sorti capolavori musicali quali il quattrocentesco Chant des oyseaux (Canto degli uccelli , di Clement Jannequin, le Quattro stagioni di Antonio Viva1di e la Sinford,a Pastorale di Beethoven. Non ha importanza sapere che l'autore:sia un umile anonimo, oppure un geniale compositore. Ed è impossibile, nel campo della musica popolalresul piano estetico, trovare un punto di rotturatra espressione dotta. ed espressione incolta. Spesso,ci troviamo di fronte a produzioni di gente incolta di rara bellezza e, di contro a delle produzioni dotte non privo di banalità

Mario Macchi

Monfalcone, 29 settembre 1995

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